domenica, ottobre 26, 2008

CHE BELLO, DUE AMICI UNA CHITARRA E UNO SPINELLO

Ogni volta che mi capita di passare per Trastevere, in via della Scala, non posso non pensare a Stefano Rosso. Erano gli anni della scuola media che ho avuto la fortuna di frequentare in un istituto situato al Portico d’Ottavia. Il doposcuola lo trascorrevo con i miei compagni tra i vicoli di Trastevere, il quartiere Regola e il colle Aventino. L’inferriata di Santa Maria in Trastevere spesso fungeva da una delle due porte dell’improvvisato campo da calcio sul quale si svolgevano memorabili sfide tra noi ragazzini. Via della Scala era là e lungo quella strada scorreva un fiume di gente. L’atmosfera di quegli anni, per quanto funestati dalla violenza politica e dalla criminalità diffusa di una Roma che stava cambiando, in quei vicoli carichi di storia, sembrava sospesa tra la tradizione popolare romana, ancora viva, con i tanti i panni stesi alle finestre e le botteghe degli artigiani chiassosi e indaffarati, e la gioventù dei freakettoni seduti sui gradini della fontana posta al centro della piazza. Con le loro chitarre e le folte chiome, erano accomunati da un forte senso di amicizia e partecipazione. Stefano Rosso con la sua canzone Letto 26 fotografava la giusta sintesi di quella dimensione. Nella più famosa Storia disonesta c’èra poi l’ironia e la scanzonata audacia di citare in una canzone lo spinello, scandalo per quei tempi ancora condizionati da una subdola censura perbenista. Lui non si curò molto di far ricorso a vaghe allusioni o ipocriti sinonimi pur di rompere gli schemi di una società ancora imbavagliata da moralismi cattolici e il codice Rocco. Il tutto contribuì in breve tempo a rendere Stefano Rosso un menestrello autentico che con la sua allegoria lo relegava, a mio avviso, tra i migliori testimoni culturali di una Roma sparita, la stessa Roma che fu di Ettore Petrolini, altro “popolano del miglior lignaggio". Dissacrante, ironico e irriverente come lo fu il poeta Gioacchino Belli durante il regno temporale dei papi sulla città eterna. La erre moscia e il tono colloquiale rendevano gradevole l’ascolto delle sue canzoni, differente dai toni grevi e cupi di un certo cantautorato settario che all’epoca furoreggiava. I testi, spesso autobiografici, conciliavano con la sua musica semplice ma efficace ispirata alla canzone popolare romanesca e intrisa di virtuosismi del country e del folk americano, spesso con arpeggi in finger picking, molto elaborati e mai banali.

Da ricordare anche le sue canzoni più impegnate come Odio chi, censurata ed epurata di alcune frasi ritenute poco “opportune” dagli autori di una trasmissione televisiva della Rai poco prima di andare in onda, vero atto d’accusa verso l’ipocrisia e l’opportunismo di certi italiani, poi ancora Bologna ’77, dedicata a Giorgiana Masi, ragazza uccisa a Roma durante una manifestazione.

La sua storia musicale ha conosciuto poi alterne fortune fino all’oblio sancito, ingiustamente, più dall’industria discografica che non dal pubblico. La notizia della sua scomparsa, oltre a procurare in me una velata tristezza, mi ha indotto ad una riflessione amara circa la deriva che ha conosciuto la generazione di quegli anni, ormai sopraffatta dalle orde nazi-fasciste degli stadi di calcio e culturalmente offuscata da un certo revisionismo storico di tipo autoritario che sembra aver contaminato larghe fasce di giovani.

Barabba

1 commento:

Anonimo ha detto...

E' sempre la solita storia. Si fanno le lodi delle persone solo quando non ci sono più...mah !