domenica, agosto 16, 2009

UN PALO A 33 GIRI

C’è un tizio ubriachissimo che gira intorno a un palo facendosi perno col braccio. Il suo andamento non è poi così preciso per una persona seria, ma è perfetto per una che ha in testa la stessa canzone sulla quale il tizio gira… “È proprio perfetto, sembra quasi la puntina del giradischi, e il suo disco è il palo”. È raro, molto raro, trovare oggigiorno un ubriacone che gira intorno a un palo e che, per di più, canta la tua canzone. Già, raro. Ma che dico, assurdo! Tornando al tizio, è lì, tutto preso dal suo disco. Mi guarda. Lo guardo. Canta. Penso: “Que sera, sera…”. Lui continua la sua circonferenza, io la mia retta…
Forse anche quel tizio, in preda a una sbronza, pensava al suo futuro incerto, ma a differenza mia, che penso a un futuro “futurissimo”, forse il tizio pensava a un futuro più prossimo, magari a cosa sarebbe successo al prossimo giro di disco (o di palo)… Ma forse anche lui stava pensando al futuro “futurissimo”, forse era stato licenziato e i giri di palo lo aiutavano a sentirsi meglio. Ma anche no. Quando uno viene licenziato non pensa a un futuro “futurissimo” né a uno prossimo, semplicemente non pensa; o perché è troppo incazzato o perché è troppo contento. Io sarei stata contenta. E forse anche lui lo era. Sì, era contento. L’ho visto nei suoi occhi tritati da vene rossastre, l’ho visto. Aveva lo sguardo di chi si è ritrovato libero, quello sguardo misto tra smarrimento per aver perso qualcosa che, bene o male, gli impostava la vita; paura per aver ottenuto parte di qualcosa che non aveva mai neanche conosciuto e non sapeva se ora era in grado di gestirlo e felicità... ma perché? Cazzo, siamo esseri pensanti e abbiamo consapevolezza di quello che ci succede, almeno un po’!
Fatto sta che almeno il tizio aveva avuto qualcosa da perdere, io no!
Quella era la quinta sera che mi sentivo dire: «La ringraziamo per il suo materiale, le faremo sapere». Quando? Mai, ovvio. Quando una ditta di grafica pubblicitaria ti dice così è sempre MAI. In realtà hanno dei messaggi subliminali in quella frase predefinita: “la ringraziamo per il suo materiale” (che intanto abbiamo copiato), “le faremo sapere” (contaci, idiota!)…
Già, “Que sera, sera”…
Sera seguente. Stessa strada, stesso tizio, stesso palo, disco diverso. Lo noto per caso, sono troppo incazzata e mi accorgo di lui solo grazie alla canzone che canta: Black Night dei Deep Purple. È la stessa che mi gira in testa in quel momento. “Allucinante!” penso, “ma cosa bave il tizio per poter leggere la mente?!”. Questa volta però non compie una circonferenza precisa, piuttosto si dondola freneticamente in modo spigoloso. “Forse è incazzato” penso, “io lo sono, per un motivo più che valido: per l’ennesima volta, mi sono ritrovata tra le mani una cartolina con sopra stampato il mio lavoro. Forse dovrei imparare a firmare qualche scartoffia che in qualche modo proibisca di fare queste cose, se esistono scartoffie di questo genere. E il tizio? Chissà perché è incazzato, se è incazzato, si sarà reso conto che non riesce a fare una circonferenza perfetta come quella dell’altra volta. O forse è incazzato perché non sa cosa fare della libertà appena ottenuta dal licenziamento. In effetti aveva lo sguardo di chi si ritrova in possesso di qualcosa di prezioso ma si rende conto di non sapere cosa farsene. Fa rabbia. Fa rabbia perché a quel punto non sai neanche se hai VERAMENTE QUALCOSA di prezioso.” Io avevo tra le mani il segno che, per l’ennesima volta, ero stata fregata, che cosa potevo fare? Niente. Non avevo una prova concreta per riscattarmi.
E il tizio? Lui aveva la sua libertà, ma non sufficientemente “libera” per poter essere vissuta. Già, se era libero e continuava a fare sagome intorno a un palo, non era stato poi così libero, o capace, di sfruttare la sua libertà.
Non passo per quella strada più o meno da un mese, ma stasera sì. Non so se sono curiosa di vedere il tizio- puntina di giradischi-ubriacone, oppure se mi rendo conto che quella è la strada più breve per arrivare a casa. Incredibilmente, ma non troppo, il tizio c’è. Anche la sua sbronza. Anche il suo palo. E anche la canzone che ho in testa, sulle sue labbra. Mi fermo, si ferma. Lo guardo, mi guarda.
Diciamo: «We must never die apart».
«Perché quanti questa canzone?» gli chiedo, «la canti al tuo disco… palo?».
Il tizio ride.
«E tu, perché la canti? A chi la canti? La canti a qualcuno in particolare?».
Aveva lo sguardo fisso sul mio. I suo occhi, sempre tritati da vene rossastre, erano ironici.
«No» rispodo divertita, «La cantavo così, tanto per…».
«Non si canta mai tanto per… io la canto a me stesso, per ricordarmi che solo io veramente mi appartengo, e forse questo palo; che solo io posso essere la mia puttana, la madre dei miei figli, ecc. Conosci la canzone, no!?».
Rimango di stucco di fronte alla risposta biascicata dal tizio. Sono incuriosita e continuo a fargli domande.
«Perché cantavi Que sera sera e Black Night?».
«Tu perché le cantavi?».
«Io non le cantavo!».
«Sì, l’ho visto dal tuo sguardo, nessuno si sarebbe fermato a fissare un tizio ubriachissimo che fa sagome intorno a un palo, ad ascoltare quello che canta. A meno che, anche lui, non stia cantando la stessa canzone».
«Giusto» rispondo sempre più incuriosita e appena divertita.
Il tizio era strano e pensavo che era l’unica persona con cui avevo avuto un’intesa così profonda.
«Perché eri felice e incazzato?» gli chiedo per confermare o discreditare le mie teorie. «Sai» continuo, «io non ero felice, ma incazzata lo ero davvero, e ora sono…».
«…appagata» mi interrompe, centrando in pieno.
«Sì. Mi sono accorta che nonostatnte non riesca a trovare uno straccio di lavoro, e nonostante mi continuino a fregare le idee, ciò che creo è mio, è qualcosa da cui non potrò mai distaccarmi, mi appartiene, e non mi interessa se gli altri non lo accettano o lo accettano troppo!».
«Quindi anche tu la canti a te stessa? Non canti tanto per… una canzone, di solito, intesa come una dedica a qualcuno in realtà è ottima per se stessi, per ricordarsi chi si è e cosa si è in grado di fare».
Ora il tizio aveva un tono diverso, non biascicava ma parlava e le sue parole sapevano tanto di saggio. Continuavo a chiedermi, nel frattempo, cosa diavolo bevesse, se per caso poteva darmi il nome del market dove comprava le sue bottiglie.
«Ma chi diavolo sei?».
«Sono solo un ubriacone che fa sagome intorno a un palo. Sono uno che è stato incazzato perché non riusciva più a fare sagome precise intorno al suo palo. Felice? Io non sono stato felice, sono stato indifferente, indifferente a ciò che mi sarei trovato di fronte a ogni giro. Sono soddisfatto di tutto questo».
Le mie teorie erano confermate, chi lo avrebbe mai detto. Ma dette da lui sembravano meno banali.
«Continuerai a fare sagome intorno a un palo? Sai, così continuerò a passare da qui per tornare a casa, e non perché è la via più breve, ma semplicemente per ascoltare la canzone che ho in testa».
«Certo. Riuscirai sempre a sentire la tua canzone».
Detto c’ho il tizio se ne andò verso il lato opposto.
Continuai a passare di lì e continuai a vederere il tizio-puntina di giradischi-ubriacone disegnare sagome intorno al palo, e naturalmente continuai a sentire la canzone che avevo in testa sulle sue labbra.
Maggy

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